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LEVIATANO


Recensione di Giuseppe Menzo per BANQO  del  5/5/2023

https://www.banquo.it/teatro/2023/05/06/leviatano-recensione-rischiosa-di-uno-spettacolo-tranello?fbclid=IwAR1u22FpKTvteqBH4-s6xicBZeN2uV3pEhYqQ3DWs59xoLy4Fig42w_g6e0


È andato in scena dal 24 al 26 Aprile, presso il Teatro Basilica di Roma, lo spettacolo “Leviatano” di Riccardo Tabilio, diretto da Alessandro De Feo ed interpretato da Diego Migeni, Stefano Patti e Giole Rotini.

La recensione di questo spettacolo è presto fatta: il lavoro in questione è la perfetta esemplificazione di un fresco e riuscito lavoro di ensemble tra “giovani” professionalità che affrontano un fatto drammaticamente tragicomico – e la scelta dell’avverbio è rischiosa, ma voluta – e lo restituiscono con un’energia e dei tempi coerenti al genere scelto- quello della commedia pop – il cui utilizzo consente l’uso di toni variegati che scansano il rischio dell’appiattimento.

Gli attori interpretano con apparente semplicità e ammirevole misura i svariati personaggi dei quali sono chiamati ad indossare i panni, conducendo gli spettatori lungo la traiettoria drammaturgica che si sviluppa a partire da un dato fatto di cronaca e del conseguente studio che due professori universitari – un professore e un dottorando, per la precisione, – svilupparono a partire dal primo.

Il 6 Gennaio 1995 il Signor MacArthur Wheeler, convinto di aver ottenuto l’invisibilità grazie al succo di limone, rapina a volto scoperto due banche nei dintorni di Pittsburgh e nel 1999 gli studiosi di cui sopra David Dunning – ordinario di psicologia presso la Michigan State – e il suo dottorando Justin Kruger regalano al mondo la loro teoria oggi globalmente riconosciuta con il nome ” Effetto Dunning – Kruger” e che, in estrema sintesi, può riassumersi nell’esistenza di un rapporto inversamente proporzionale presente tra le conoscenze possedute da un individuo su un dato argomento e la sua personale convinzione di maneggiare con perizia quello stesso specifico ambito di competenza.

Va da sé, dunque, che la drammaturgia e la messa in scena avrebbero potuto virare verso una restituzione accademica e, nella peggiore delle ipotesi, moralistica e moralizzatrice, quando, invece, sia l’una che l’altra sono impregnate di una intelligente leggerezza frammista ad una sana ricerca del senso che abita la stessa ricerca appena citata.

De Feo con i suoi attori mixa le tecniche possibili e plausibili di restituzione teatrale partendo da un abbattimento della quarta parete effettuato con sornione intelligenza da tutti e tre gli attori per poi proseguire con un uso dello spazio e del tempo di interessante fruibilità.

Lo spettacolo si poggia su un ritmo costante e mai sfiancante l’attenzione dello spettatore che, si suppone, ha piacere a sorridere e riflettere degli avvenimenti che osserva davanti a sé.

“Leviatano” è dunque un lavoro di semplice precisione, frizzante recitazione e funzionale direzione e che, nel suo complesso, potrebbe definirsi tanto utile quanto piacevole.

Oltre che, naturalmente e senza colpa, istruttivo.

A meno che non si pensi impropriamente di essere dei Maestri del Mezzo e non si incappi a piene mani nei pericoli dai quali tutta l’operazione prova simpaticamente a mettere al corrente.

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ROLANDO, LE CATTIVE ABITUDINI


Recensione di Paolo Panaro per

II Foyer del 18/07/2022

https://www.ilfoyer.net/Recensioni/677/ROLANDO/?fbclid=IwAR0RuZDelpR50Bsik42Lzkxg95DuWwMH2NEIGIzFEU7kBGHinuBq_UywdcM

"Rolando - Le cattive abitudini" è andato in scena il 13 e il 14 luglio, in concorso al Roma Fringe Festival che si svolge dall'11 al 27 del mese al teatro Vascello.
Interpretato da Alessandro De Feo e Gioele Rotini, drammaturgia e regia dello stesso De Feo, direzione tecnica di Matteo Ziglio, assistente di scena Gioele Rotini, direzione di scena di Marco Usai.
La scenografia è composta da un frigorifero a sinistra, una poltrona a destra, un water dietro al centro racchiusi in un quadrilatero disegnato per terra uno dei cui vertici punta verso la platea.
Il lavoro drammaturgico è originale, pur traendo spunto da un monologo di Rodrigo Garcia: "La storia di Rolando il pagliaccio del McDonald's".
"Siamo quello che mangiamo" sosteneva il filosofo tedesco Feuerbach, e il protagonista dello spettacolo - che emblematicamente si chiama Rolando -, sembra riagganciarsi a questa tesi indagando la "relazione stomaco-testa" e più precisamente "la relazione tra ciò che si mangia e ciò che si pensa", giungendo a convincersi che "pensiamo quello che mangiamo!".
Dal pretesto di carattere alimentare Rolando si lancia ben presto in una critica sociale che investe principalmente le multinazionali e gli Stati Uniti d'America, passando attraverso alcuni episodi che appartengono dichiaratamente al vissuto dell'autore e riflettendo sui condizionamenti subiti dall'infanzia alla giovinezza ad opera della cultura pop, televisiva, letteraria e cinematografica. Una sorta di requisitoria che procede sul doppio binario individuo-società, il cui obiettivo si svela essere il "capire se le cattive abitudini" siano "una causa o una conseguenza di essere un perdente": se lui stesso è una vittima oppure se è un perdente proprio perché non è mai riuscito a fare a meno delle "cattive abitudini" stesse che, naturalmente, possono anche essere considerate ben oltre lo stretto ambito della metafora alimentare.
Cerca le risposte in età matura Rolando, perché lo impongono gli obiettivi dell'età che lui stesso espone in una breve dissertazione che mi ha piacevolmente ricordato "La vita in domande ed esclamazioni" di Cechov.
Una risposta netta alla domanda non arriva - a parer mio giustamente -, ma nel riuscito finale che non sveliamo, Rolando - dopo aver portato alle conseguenze più estreme la sua critica (a un certo punto immagina di ammazzare tutti i bambini che frequentano McDonald's avvelenando gli "happy meal" con un pesticida) -, torna mestamente sui suoi passi facendoci intendere quanto sia difficile per non dire impossibile, anche nell'approssimarsi della catastrofe, scollarci dalla nostra comoda poltrona e dalle nostre "cattive abitudini", ossia cambiare veramente.
Va reso merito al prezioso ed efficacissimo contributo scenico di Gioele Rotini durante tutto l'arco della rappresentazione, che di volta in volta è alter ego del protagonista, evocazione di sventura con il volto coperto da un enorme becco nero, pagliaccio di McDonald, danzatore e cantante.
È pure doveroso citare il suggestivo apporto di alcune proiezioni.
"Rolando - le cattive abitudini" è, in conclusione, una pièce dagli ottimi contenuti e dagli ottimi esiti scenici, forse con qualche dettaglio da mettere ancora a punto per esprimere il massimo delle sue notevoli potenzialità.

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LA VERA VITA DEL CAVALIERE MASCHERATO


OPERA DA TRE SOGNI

recensione di Antonella Paladino per Persinsala  del 10/06/2015

http://teatro.persinsala.it/la-vera-vita-del-cavaliere-mascherato-roma-fringe-festival/14296

Tra gli spettacoli che inaugurano la seconda settimana al Fringe Festival, un avvincente atto unico liberamente ispirato a Bertolt Brecht: La vera vita del Cavaliere Mascherato. Un miserabile, sottopagato, cameriere di una locanda di periferia trascina la sua esistenza tra insulti e rinunce. Un impavido cavaliere mascherato si innalza paladino a degli oppressi tra riscatti e vittorie. I due personaggi hanno lo stesso volto di Jacob Geherda, profilo appena tratteggiato dalla penna di Brecht. Su quale sia La vita vera del cavaliere mascherato, però, lo spettatore non può avere dubbi. Per l’attualità di un copione della prima metà del ‘900, la Compagnia Cavalieri Mascherati rimette mano a un’opera semisconosciuta dell’autore tedesco e la porta in concorso per la quarta edizione del festival teatrale indipendente dell’estate capitolina. Come un filo rosso, proprio il nome di Brecht riecheggia in numerose battute insieme alla sua critica d’impronta marxista all’onnipotenza del denaro, ai soprusi sui più deboli e all’ineguaglianza, in una messa in scena articolata in tre sogni modernizzati in tre round. Sipari cupi dai toni seri si alternano con rapidità a parentesi goliardiche e colorate, che suscitano riso, ma aprono alla riflessione. Il canovaccio sporco tra le mani di Geherda diventa, per necessità d’evasione, un copricapo capace di proteggerlo in una nuova maschera, un alter ego sognato, e fargli recitare un canovaccio completamente ribaltato, quello di un misterioso e rivoluzionario vendicatore. Il doppio piano tra realtà da vinto e sogno di vincitore, tra dominanti e oppressi permette ai protagonisti, Jacob (Tiziano Caputo) e l’amico Joppe (Matteo Cirillo), ma in generale a tutti i bravi attori della Compagnia, di mostrare versatilità d’interpretazione e celerità di cambiamento tra i due “palchi”. Fedele all’ideologia originaria dell’«uomo che non aiuta l’uomo», ma aperto a contaminazioni cinematografiche, Alessandro De Feo, autore e regista, ha provato a «stravolgere e, perché no, potenziare un’opera quasi mai rappresentata con passi di altre opere, poesie e aforismi dello stesso autore, tra i quali esiste un filo conduttore tangibile». Nella nuova cornice dei giardini di Castel Sant’Angelo – che si attendeva migliore per effetto, suggestioni, audio e luminosità – la compagnia ha saputo sfruttare bene uno spazio storicamente evocativo, allargando la scena oltre il piccolo Palco A e più volte creando un contatto con un pubblico partecipe. Apprezzabile anche la musica, componente fondamentale di quella produzione drammaturgica che ne L’opera da tre soldi del 1928 aveva raggiunto vertici di innovazione e potenza inediti. Oltre a quella classica, nella scelta finale di Nino Rota, si giunge a innestare il bagaglio felliniano relativo al sogno e alle atmosfere circensi. Ma il pessimismo dell’autore non risulta affatto cambiato di verso e il lieto fine rimane solo del sogno.

RACCONTI TROPICALI AL ROMA FRINGE

recensione di Carlo Lei e Luca Lotano per Krapp' s Last Post del 16- 06-2015

 

http://www.klpteatro.it/piove-o-non-piove-racconti-tropicali-dal-roma-fringe-festival


L’esperienza di teatro sociale brechtiano, così la giovane compagnia Cavalieri Mascherati definisce il proprio genere, ha qualcosa di immersivo nella sua messa in scena, merito di una potenza attorale non comune, contagiosa, e della regia pirotecnica di Alessandro De Feo, che miscela il sapore popolare e tannico della commedia dell’arte e della sceneggiata napoletana con il ritmo sincopato e incalzante della satira da vaudeville, versando sul pubblico uno spettacolo potente, inebriante, lavorato sul coraggio e sulla bravura dei giovani interpreti che presentano più di una candidatura come miglior attore: uno spettacolo che rivedremo sicuramente su altri palcoscenici.


CRONACA DI UNA SEMIFINALE

recensione di Sandro Giovagnoli per Paperblog  del 15-6-2015


https://cultura.gaiaitalia.com/2015/06/roma-fringe-festival-2015-vistipervoi-cronaca-di-una-semifinale/


Dei tre spettacoli semifinalisti, quello più convincente è stato in verità “La vera vita del Cavaliere Mascherato” liberamente ispirato a “La vera vita di Jacob Gherda” e altre poesie e opere di Bertolt Brecht; il testo è cesellato e completato da Alessandro De Feo e Giancarlo Sammartano. In un triste albergo berlinese, il sottopagato cameriere Jacob Geherda conduce la sua miserabile esistenza, costretto a subire giornaliere umiliazioni dai superiori e dai clienti. Non gli rimane che il sogno come unica forma di riscatto personale e in un’ora di pirotecniche trasformazioni diventa il Cavaliere Mascherato, difensore dei maltrattati. Un delizioso spettacolo, esplosivo, pulito e umile, indeciso tra l’essere un vaudeville, una sceneggiata napoletana o dramma romantico, un’altalena spumeggiante tra sogno e realtà, sorretto sulla solita struttura drammaturgica del teatro brechtiano: insomma, Teatro. A dire il vero la messa in scena va persino oltre il Brecht storico e la sua filosofia, perché fuori dal sogno l’interpretazione è molto vera, non distaccata, secondo i canoni più moderni. Gli interpreti, lodevoli per pulizia e bravura, sono coordinati come gli ingranaggi di un’unica macchina in corsa a folle velocità e pronta ad esplodere. La morale brechtiana è presente, palpabile, lacerante e ci rimane per tutta la sera nella testa la frase “lei non ha soldi, per questo possiede opinioni”. Peccato non possano godere della possibilità di vincere New York, perché probabilmente più di altri spettacoli visti fin’ora riesce a comunicare al di là della comprensibilità linguistica e sarebbe stato un degno rappresentante della cultura teatrale e dell’off italiano.


MISERABILI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!

recensione di Riva Estifeeva per Gufetto.it del  14-6-2015


http://www.gufetto.it/roma-fringe-festival/fringe-festival/roma-fringe-festival/roma-fringe-festival-la-vera-vita-delcavaliere-mascherato-miserabili-di-tutto-il-mondo-unitevi


Alle semifinali del Roma Fringe Festival di sabato 13 giugno è andata in scena “La vera vita del Cavaliere Mascherato” della Compagnia Cavalierimascherati. Alternando sapientemente il cabaret e il dramma realistico, la giovane troupe racconta la rivendicazione (immaginaria?) di un povero cameriere e rende Brecht quanto mai attuale. Jacob Geherda lavora in un albergo poco frequentato dai clienti. È sottopagato e da qualche mese non percepisce neanche il suo miserevole stipendio; e quando finalmente arriva un gruppo di clienti benestanti viene da essi maltrattato. La sorte ancora peggiore subisce la giovane cameriera, corteggiata dal capo del gruppetto. Il fidanzato di lei chiede aiuto a Jacob. Ma questo è costretto ad assistere alla violenza sessuale subita dalla ragazza e non osa a ribellarsi. Per la propria vendetta si copre il viso con la maschera e la testa con lo stesso straccio con cui toglie la polvere dai mobili. Diventando il Cavaliere Mascherato, sfida il perfido antagonista. Sfortunato nel combattimento alle armi, trionfa però nel duello verbale e risponde con un orgoglioso rifiuto al tentativo di corromperlo. Mentre tutta la parte realistica è rappresentata in una maniera affettata che porta spesso alla perdita della credibilità, tutto il percorso che nell'opera brechtiana è affidato all'immaginazione di Jacob qui viene reso con un brillante mix fatto di cabaret, teatro avanguardista e moderno spettacolo televisivo. È nell'assurdo e nell'irreale che la compagnia dimostra il proprio meglio, compreso il coordinamento perfetto tra i movimenti (spesso e volentieri sincronizzati) dei vari personaggi che rende l'azione scenica veramente spettacolare. Un altro elemento degno di nota è l'interazione con il pubblico. Il pubblico teatrale si è abituato da un bel po’ a essere interrogato e a vedere gli attori tra le proprie fila. Il “Cavaliere Mascherato” porta l'interazione a un nuovo livello. Quando uno dei personaggi, un miserevole impiegato di una sala del cinema nonostante l'alto livello degli studi svolti (ancora un triste richiamo all'attualità), passa in mezzo agli spettatori esclamando tristemente: “Patatine! Caramelle! Pop-corn!”, nel suo vassoio ci sono dei sacchetti che il pubblico in effetti prende e comincia distrattamente a consumare, mentre diventa sempre più chiara la deprimente situazione del personaggio, costretto a perdere la fidanzatina lasciata in balia al ricco cliente dell'albergo. L'effetto scombussolante del sacchettino con il pop-corn in mano (lo si mangia? glielo si deve restituire? ma si paga? saranno le patatine vere e proprie?) accresce la compassione, coniugandola quasi a un senso di colpa. Un ottimo trucco psicologico, eseguito con massima maestria dall'attore. Lo spettacolo che da un lato attualizza la pièce di Brecht, collegandola alla realtà italiana di oggi familiare a molti degli spettatori, la volge però su un registro molto più positivo. La distinzione tra la realtà e l'immaginazione, forte nel testo originario, si rende quasi impercettibile nello spettacolo, ponendo un dubbio se non si tratti degli avvenimenti che vanno presi come reali. Anche se dovessero rimanere solo un felice sogno del protagonista, la quantità di massime ottimiste e salvifiche da esso pronunciate conferiscono alla rappresentazione una chiara morale. “Soprattutto chi ha poco da mangiare condivide con gli altri!”, “Nulla rende felici quanto l'aiuto reso a chi ha più bisogno!”... Queste e altre sentenze formano una specie di ricetta della felicità per il mondo iniquo.



BRECHT ARRIVA AL ROMA FRINGE

recensione di Chiara Bencivenga per Cryptica del 10-06-2015


https://criptyca.wordpress.com/2015/06/10/la-vera-vita-del-cavaliere-mascherato-brecht-arriva-al-roma-fringe-festival/


Un’opera di Bertolt Brecht incompiuta e quasi sconosciuta, arricchita da poesie e frammenti di altre opere dello stesso drammaturgo tedesco, tutti collegati dallo stesso fil rouge, in una chiave emozionante e affascinante.Jacob Geherda, un timido e insicuro cameriere di un misero albergo, assiste impotente ai soprusi di clienti abbienti e arroganti. Nei suoi sogni Geherda diventa il temibile Cavaliere Mascherato, coraggioso e sfrontato, che con sfide, duelli e impareggiabile destrezza riuscirà a sconfiggere il male e a segnare il trionfo degli umili. Ma la realtà non è mai semplice come in un sogno. La regia di Alessandro De Feo offre spunti molto interessanti nel continuo gioco tra realtà e sogno: la prima così crudamente cupa e aggrappata a un filo di speranza, e il secondo, un universo colorato dal nonsense, tra coriandoli, maschere grottesche, giochi di parole e botta e risposta assolutamente divertenti. È un continuo rimbalzare dal comico al drammatico, con coerenza e precisione, e più si ride nel sogno, tanto più colpisce la disillusione della realtà. La profondità del testo e la puntualità acuta della regia sono sorretti da un cast di alto livello, capace di una grande versatilità e di un ritmo sempre incalzante: spiccano, in particolare Tiziano Caputo, Geherda, e Matteo Cirillo, Joppe, commovente nella sua fragilità. Molto curata anche la scelta delle musiche, da brani puramente brechtiani, come “Jenny dei pirati” de “L’opera da tre soldi” e la malinconica “Sonata al chiaro di luna” di Beethoven. La giovane compagnia si misura con un mostro sacro del teatro con rispetto ed evidente preparazione. Il risultato è ottimo, non lascia nulla in sospeso, ma riesce con eleganza a unire puro divertimento e riflessione in una commedia tanto vivace quanto amara. “Nessuno al mondo osa dare la mano a chi va a fondo.” Questa è la vera condizione dell’uomo, inevitabilmente succube della brutalità della sua natura. E chissà cosa sceglierà Geherda: rimanere nella miseria, ma fiero della propria onestà, o abbassare gli occhi in silenzio e ottenere finalmente il suo riscatto?



RECENSIONE DI SERENA DI GIOVANNI PER PERIODICO ITALIANO del 12-6-2015


http://www.periodicoitalianomagazine.it/notizie/ROMA_FRINGE_FESTIVAL_2015/pagine/La_vera_vita_del_Cavaliere _Mascherato_recensione_Roma_Fringe_Festival_2015


Un’opera di Bertolt Brecht incompiuta e quasi sconosciuta, arricchita da poesie e frammenti di altri lavori dello stesso drammaturgo tedesco, tutti collegati dal medesimo filo conduttore, in una chiave ironica e divertente. È questa l’anima portante di questo spettacolo liberamente ispirato a ‘La vita reale’ di J. Geherda di Bertolt Brecht. E proprio come nel suo modello di riferimento, anche in questo caso emerge con forza il concetto di ‘trasformazione’, di ‘metamorfosi’, con tutto quello che ne consegue. Il sipario si apre in un locale di secondo ordine della periferia berlinese. Un cameriere, Geherda, conduce un'esistenza a dir poco grama. Non ha scampo dal mondo avido e arido che lo circonda. Da questo sentimento di insoddisfazione, alimentato dalla sua misera paga e dalle angherie che è costretto a subire, nasce in Geherda l’idea di un alter ego che possa salvarlo: la figura eroica e impavida del Cavaliere Mascherato. Lo spettacolo di fatto racconta gli effetti prodotti dalla mentalità capitalista sull’uomo moderno. Colui che, pur lagnandosi della sua condizione, è incapace di modificarla, di ribellarsi a ciò che ingiustamente gli viene imposto. Alessandro De Feo ci introduce l’immagine di un uomo incapace di reagire, se non ‘idealmente’, al sistema socioeconomico di cui fa parte, che lo ha reso schiavo del denaro, vittima e carnefice di se stesso. Un uomo in bilico tra la voglia di cambiare, di riappropriarsi della libertà perduta, e la necessità di adeguarsi allo status quo. Un uomo forse troppo codardo per esprimere la propria opinione e portare a compimento il tanto agognato riscatto morale. Che avviene unicamente sul piano immaginifico, attraverso il ‘delirio’ della metamorfosi. Geherda si sdoppia, diventa un ‘Cavaliere’ in grado di difendere la categoria degli oppressi (della quale lui, ovviamente, fa parte) che sogna e raggiunge la sua libertà attraverso la fuga e lo smacco nei confronti di chi lo ha sbeffeggiato, ovvero l’ultimo viaggio nella lontana Tahiti. Lo spettacolo è scorrevole, divertente e assolutamente attuale perché intriso della morale brechtiana dell’uomo che non aiuta l’uomo, in preda a rabbie e frustrazioni e schiavo del denaro. Visionario quanto basta, esso attinge al teatro non sense vaudevilliano e coinvolge divertendo spettatori e pubblico inducendo alla riflessione sui grandi quesiti socio-culturali della civiltà moderna, tra i quali il reale prezzo della nostra libertà di pensiero. Divertente.



AL ROMA FRINGE FESTIVAL OMAGGIO A BRECHT

recensione di Angela Santomassimo per Note Verticali del 15-6-2015


http://www.noteverticali.it/visioni/2015/06/la-vera-vita-del-cavaliere-mascherato-al-roma-fringe-festival-omaggio-abrecht/#sthash.P38Aarhg.dpuf



Liberamente tratto da “La vita reale di J. Geherda”, una delle opere meno conosciute, nonché incompiute di Bertolt Brecht, lo spettacolo “La vera vita del Cavaliere mascherato” ne riprende tutto il meglio per contaminarlo in una serie di altre opere dello stesso autore, sfruttando appieno l’espressività delle maschere teatrali. Tra le mura di un piccolo albergo della periferia berlinese, si svolge la triste esistenza di Geherda, cameriere oppresso dai suoi superiori e costretto a subire a testa bassa le umiliazioni dalla clientela. Per scappare dalle difficoltà quotidiane, Geherda si rifugia in un mondo di fantasia, nel quale veste i panni di un Cavaliere mascherato avventuroso e coraggioso. Ne viene fuori un alter ego che dietro la sua maschera non teme nulla e nessuno, e che a suon di duelli e sfide diventa il paladino degli oppressi. “La vera vita del Cavaliere mascherato” è uno spettacolo divertente ma non superfluo, che riesce a intrattenere lo spettatore alternando episodi cupi a siparietti goliardici, In entrambi i casi, prima esplicitamente e poi in maniera più occulta, capaci di articolare una riflessione profonda su tematiche fedelmente brechtiane, quali l’ineguaglianza sociale, il dominio sui più deboli e la prevalenza del denaro. Con il suo costante gioco equilibristico tra reale e fantastico, ogni situazione diventa il pretesto per la trasformazione nell’atto eroico del protagonista, che trova perfetto slancio vitale nello spazio introno al palco e letteralmente si lascia andare a corse sfrenate nei giardini di Castel Sant’Angelo al grido di “Libertà!”. In questo senso, la location del Fringe di quest’anno cade a pennello per uno spettacolo, i cui protagonisti riescono a coinvolgere lo spettatore rendendolo partecipe anche a livello fisico, quando incuriosito al di là del luogo canonico del palco, si guarda intorno alla ricerca dei personaggi. Ed è proprio l’aprirsi alle contaminazioni esterne il punto forte dello spettacolo, che pur restando fedele al testo originale del drammaturgo tedesco, si lascia infondere nuova linfa dalla regia di Alessandro De Feo e da impulsi cinematografici evidenti, come quando il cavaliere richiede un’atmosfera felliniana per festeggiare le sue vittorie e si sentono riecheggiare le note di Nino Rota. Evidente poi la bravura degli interpreti, capaci di trasformarsi di volta in volta, mimicamente e verbalmente in maschere clownesche, chiare parodizzazioni di situazioni reali. “La vera vita del Cavaliere mascherato” è uno degli spettacoli che ha avuto più successo in questa seconda settimana del Fringe, arrivando tra i tre finalisti.



RECENSIONE DI FRANCESCA CIPRIANI, BLOG RIFLESSI AL MARGINE del 17-6-2015


http://riflessialmargine.blogspot.it/2015/06/la-vera-vita-del-cavaliere-mascherato.html


Un Uomo e la sua professione, un uomo e le sue storie, un uomo e i suoi due mondi. Tutto inizia in un albergo della periferia berlinese dove un cameriere, il nostro protagonista, ci rende partecipe sia del suo vissuto quotidiano che di quello immaginifico. Un sogno ad occhi aperti. Dal binomio sogno/realtà prendono vita, sul palco, due storie che procedono in parallelo. La realtà è una storia di degrado, una storia di umiliazioni, una storia dove il protagonista è il primo a subire ed anche colui che assiste, senza fare un gesto, senza dire una parole, senza agire, alle sofferenze altrui. Il sogno è una storia dove fa un gesto, dove dice una parole, dove agisce. Una storia che lo trasforma in un cavaliere mascherato paladino della giustizia. Una storia dove non subisce ed impedisce che gli altri subiscano. Un uomo in bilico tra il dovere e il proprio tornaconto personale. Due storie ben tratteggiate. Un buon equilibrio scenico. Un uso totale dello spazio ben gestito modellato per quadri scenici. Una scena che esce dalla scena, una scena che invade l’esterno. Il mondo della realtà vive di colori cupi, di corpi in chiusura, di sguardi spenti, di voci “sottotono”. Il mondo del sogno vive di corpi in apertura, di sguardi fieri e vivi, di voci piene e squillanti, di colori. Nel mondo-sogno anche gli oggetti di scena prendono vita trasformandosi/trasformando la scena. Gli oggetti vengono riabilitati (come il protagonista) mutando in una forma più nobile. Uno spettacolo in bilico tra sogno e realtà.

RECENSIONE DI ANNALISA CIVITELLI del 18-6-2015 PER UNFOLDING ROMA


http://www.unfoldingroma.com/eventi-in-citta/1220/roma-fringe-festival-2015-%E2%80%93-seconda-semifinale--sabato13-giugno/


RECENSIONE DI ANTONIO MAZZUCA PER GUFETTO.IT del 15-6-2015


http://www.gufetto.it/roma-fringe-festival/fringe-festival/roma-fringe-festival/roma-fringe-festival-e-guerriere-il-secondoseminfinalista


Applauditissimo e sicuramente colmo di un brio contagioso “LA VERA VITA DEL CAVALIERE MASCHERATO”.

 L’opera, messa in scena dalla Compagnia Cavalierimascherati mette in scena un’opera brechtiana “La vera vita di Jacob Geherda” mescolando suggestioni che provengono dal teatro dell'assurdo, i caratteri della commedia napoletana e umorismo a piene mani. Numerosi interpreti riempiono la scena, divertono, eccedono volutamente nell’esecuzione e non mancano di sfruttare agevolmente gli spazi aperti del palco all’aperto del Fringe. La storia è quella di un umile cameriere vessato da un locandiere padre-padrone e da avventori beoni della pensione per cui lavora. Ma quando cè da riparare all’ingiustizia, ecco che si trasforma in un Cavaliere, pronto ad ingaggiare duelli surreali con il cattivo di turno. Nonostante il retrogusto brechtiano che resta nell’ambientazione e in qualche passaggio più amaro, l’opera si pregia di un ritmo sostenuto, una buona gestione dello spazio scenico da parte degli attori, di una evidente originalità nelle trovate corali e di una tensione al riso che non dimentica una morale del "riscatto" che vede nella miseria umana il punto di partenza di una potenziale rivincita. Non basta però a convincere la giuria che pure applaude divertita un’opera estrosa ma le cui peculiarità didascaliche sono comunque annacquate in un clima goliardico piacevole che sovrasta, piacevolmente, su tutto.


LA STORIA DI UN UOMO CHE SI COSTRUISCE UN ALTER EGO PER MIGLIORARE LA PROPRIA VITA

recensione di Francesco Silella per MpNews DEL 18-11-2014


http://www.mpnews.it/index.php?section=articoli&category=31&id=9110/teatro-la-vera-vita-del-cavaliere-mascherato


Liberamente ispirato a "La vita reale" di J. Geherda, ha preso vita, fino allo scorso 9 novembre 2014 alTeatro Spazio Uno di Roma, "La vera vita del Cavaliere Mascherato". Un atto unico smontato e rimontato grazie alle abili mani di G.Sammartano e di A. De Feo.

DR.GEHERDA E MR.CAVALIERE MASCHERATO - Il sipario si apre in un alberghetto di second'ordine della periferia berlinese. Un cameriere, Geherda, conduce un'esistenza a dir poco vergognosa. Non ha scampo dal mondo avido e arido che lo circonda, ma proprio quando perdiamo ogni speranza, dalla nave della nostra anima, arriva la fune per salvarci dal mare in cui anneghiamo. In Geherda nasce, alimentato dalla sua misera paga e dalle angherie che è costretto a subire da chi gli sta attorno, un alter ego: la figura eroica e impavida del Cavaliere Mascherato.

SPIRITO DI RIVALSA - Sbruffone e senza macchia il Cavaliere immagina la sua fuga, la sua resa dei conti con chi lo ha sbeffeggiato e il suo sogno d'amore coronato con un ultimo volo per Tahiti. Il sogno e la realtà convolano a nozze in più di un'occasione tanto che il pubblico, grazie alla resa brillante degli attori, è portato a chiedersi dove inizi Geherda e dove Il Cavaliere.

RESA DEI CONTI - La coscienza del personaggio, mai abilmente lasciato solo in scena, supportato dalle maschere della narrativa teatrale, si vede spogliata di ogni sua sicurezza sino alla fine in cui saranno chiamate in causa le due metà del suo io: la sfrontata onestà e la propria mera avidità. Nella Trastevere moderna gli attori hanno portato il pubblico indietro nel tempo dove sono emersi lo studio e la bravura di questi ultimi potenziati dall'esperienza di vita, di gioco rappresentata sulle note dell'autore bavarese.

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LE GRAND BAL


Recensione di Olimpio Pingitore per

II Foyer del 18/07/2022

https://www.ilfoyer.net/Recensioni/336/LE-GRAND-BALL?fbclid=IwAR3cYie0nD2Y0XSweJ7s1duhD4vJfCiNG8zvhORNMSj_5uHg1qo8WHzyI2

La stagione del Teatro Studio Uno si chiude con la rassegna "I giorni della Comune". Ideato da un collettivo composto da giovani talenti romani e non solo, vincitori del bando Pillole edizione 2018/2019, che hanno avuto, così, la possibilità di sperimentare la gestione della Direzione artistica di un teatro per un mese. Questo progetto multidisciplinare, infatti, sarà in scena dal 2 al 26 maggio e vedrà sul palco vari spettacoli, incontri, performance e altri aventi; come filo conduttore "il rapporto tra arte e disagio umano con un particolare rimando al teatro di Bertolt Brecht" (ndr).
Dal 2 al 5 maggio è in scena "Le Grand Ball" di e con Alessandro De Feo. E' un progetto di ricerca teatrale che si ispira, anche se lontanamente, al concetto del Dio-Poeta che emerge dal testo Baal di Bertolt Brecht.
Baal è la prima opera di Brecht, scritta all'età di vent'anni. L'autore, attraverso un personaggio come Baal, intende reintegrare i valori negati restituendo all'uomo la sua natura corporea e materiale, un mondo senza Dio. Parla di un poeta molto apprezzato ma allo stesso tempo gretto, ubriacone, volgare, pieno di eccessi (alcool, sesso...) ma dotato di grande sensibilità: un antieroe moderno.
De Feo, invece, nella sua ricerca, lo riveste solo dell'aurea di artista. Potrebbe essere un pittore, uno scrittore, un musicista o quant'altro. Non è dato sapere perché non interessa questa mera cronaca, interessa il conflitto interiore dell'uomo, interessa far vivere i demoni interiori di Baal, le sue contraddizioni. Come non interessa nè il luogo nè tantomeno il periodo storico, tanto è vero che ci sono elementi moderni e non.
De Feo riesce abilmente a tradurre quell'attrazione di Brecht verso i poeti "maledetti", alla Verlaine per intenderci, ma sempre repressa, anche a causa di un'educazione restrittiva. Il testo è un intreccio fra biografia e spezzoni di opere di Brecht tutte ben organizzate al fine di poter avere il quadro di un uomo solo, autodistruttivo e recluso nella sua soffitta, casa, cantina, qualunque cosa fosse (sulla scena ci sono solo un tavolo con dei fogli di carta, una sedia sul proscenio, un cappello e un paio di occhiali su un necessarie).
Durante il monologo, nel quale De Feo interpreta, con padronanza, vari ruoli, caratterizzando i vari personaggi che incrociano il protagonista con l'uso di dialetti o di oggetti specifici, spiccano due figure riconducibili alle opere di Brecht: la prostituta Evelin, mutuata dalla poesia "La leggenda della prostituta Evelin Roe", e Giovanni (riscontrabile nel testo Baal stesso come amico del protagonista al quale, Baal, seduce la sua ragazza), di fatto una palla con cappuccio da aviatore, un Wilson di Cast Away rivisitato.
Tra i temi trattati anche la lotta al potere, raccontata con due pezzi del gioco degli scacchi mossi a mò di marionette, quasi a parafrasare un'altra poesia di Brecht: il Sarto di Ulm.
Un progetto che può avere delle potenzialità questo di Le Grand Ball. Un consiglio che può essere dato a De Feo è quello di osare. Dalle sue note di regia "Il lavoro cerca di indagare con vari mezzi sulla figura dell'artista, o più in generale i personaggi che si districano intorno al "mercato" dell' arte, coi suoi direttori d' orchestra, chi ci prova e non ci riesce, chi spera di lasciare qualcosa, chi rimane soltanto a guardare". Bene, perché allora non provare ad essere ancora più cinici visto che è un mondo di ipocrisia e falsità?
Brecht ci ha sempre parlato degli ultimi, forse, nella categoria umana, potremmo far sì che anche i cosiddetti "direttori d'orchestra" oppure, coloro che "non riescono e rimangono soltanto a guardare" possano essere degni di pietà.

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UN UOMO È UN UOMO

AVREMMO SEMPRE BISOGNO DI UNA PIECE TEATRALE DI BERTOLT BRECHT

recensione di Francesca Pasculli del 19/05/2018

A chiudere la stagione teatrale del Teatro Vittoria di Roma, situato nel cuore di Testaccio, è lo spettacolo Un uomo è un uomo, spettacolo di Bertolt Brecht e sotto la regia di Lorenzo de Liberato e la traduzione del testo originale di Giulia Veronesi.
Bertholt Brecht caratterizza una figura affascinante tanto quanto controversa e innovatrice nella storia teatrale del novecento. Venuto al mondo poco prima dello scoppio della Grande Guerra, appartiene a una generazione che ha perduto la sua innocenza tra la miseria e la povertà bellica. Ma è qui che Brecht prende il distacco dalla sua generazione e soprattutto dalla nazione in cui è nato e cresciuto, la Germania, trasformando la sua carriera in un continuo inno all’Umorismo considerato “il signore dei cieli”.

Un uomo è un uomo appartiene alla produzione dei suoi anni giovanili, poco dopo i primi riconoscimenti, perseguendo sempre la ricerca verso il divertimento intelligente, che dopo quasi un secolo, continua a farsi ritratto di una triste realtà, senza farsi sfuggire la possibilità di divertire lo spettatore. In quest’opera è anche presente un altro elemento fondamentale dell’intera drammaturgia di Brecht: il rovescio. È così che il drammaturgo e regista porta sulla scena i paradossi della società a lui contemporanea, in una critica ferrata e ostinata che si traveste dei panni che disprezza, come se da soli questi comportamenti bastassero per farne una critica.

RECENSIONE DI FEDERICA GUZZON per CORRIERE DELLO SPETTACOLO del 5/6/2017

http://www.corrieredellospettacolo.net/2017/06/13/un-uomo-un-uomo-lidentita-ci-viene-affibbiata/

Brecht nel 1926 fa luce sulla confusione identitaria del proletariato, in grado di riconoscere se stesso nel gruppo e non più nell’individuo. In Un uomo è un uomo Galy riceve delle attenzioni dai soldati a cui non è abituato, che conquistano il suo ego fino a sottometterlo, stuzzicando in lui nuove emozioni. Così da scaricatore di porto diventa soldato tra i soldati, in un tempo così breve che nessuno avrebbe mai detto.

L’esercito inglese è arrivato a Kilkoa, spavaldi dal fondo della platea entrano i quattro soldati Uria, Jesse, Polly e Jip, cantando ebbri. Chi ha gli occhiali da vista e chi da elicottero, chi basso e chi alto, chi composto e chi no, danno tutti un’idea molto netta su di sé e ricordano l’estetica di Full Metal Jacket. Troppo giovani per andare in guerra, sotto i fumi adolescenziali incontrano la cruda e violenta incoscienza umana e ne vengono infettati. Il branco è la loro nuova famiglia da cui imparano a sopravvivere, scoprendo una giustizia diversa. Quando Jip perde una ciocca di capelli, per rubare il denaro della cripta, i tre amici lo lasciano lì promettendo di tornare a rasarlo per nascondere le tracce. Ma nella notte non lo vedono e nessuna remora li porta a cercare oltre, non serve più, hanno un sostituto, Galy Gay,  e così viene abbandonato.

Con loro hanno il suo libretto quindi Jip ormai è solo un uomo, senza un ruolo nell’esercito, senza documenti che attestino il suo nome. Tutto è un gioco dove nessuno sembra potersi far male. Per convincere Galy Gay a restare gli propongono la compravendita di un elefante: due uomini travestiti a cui l’uomo crede ciecamente. Il paradosso si innerva nella coscienza e nei sensi fino a perdere di vista il mondo. Galy arriva a rinnegare di essere se stesso davanti la moglie e a riconoscere nella bara il suo corpo morto, essendo lui un altro. Quando il gioco ha preso il posto del vero? Il confine è mascherato e non si può ritornare indietro, il passato ormai è nebuloso e l’unica opportunità è farsi carico del futuro nuovo. Infondo il proprio nome è quello con cui gli altri ci chiamano, noi siamo ciò che gli altri percepiscono, altrimenti saremmo fuori dalla società, saremmo qualcosa di riconoscibile solo a noi.

Il testo di Brecht nelle mani di Lorenzo De Liberato si mostra in tutta la sua tragica comicità.

Il regista sembra aver lavorato sull’essenzialità, dove il testo è già stratificato su più livelli espliciti e la chiave comica è manifesta. Il rapporto tra oggetti scenici e finzione rappresentativa e tra costumi e interpretazione vive su due piani, dando l’impressione di un artificio svelato.

Una struttura di legno con un telo rosso rappresenta la cripta e poi scomposta diventa la locanda della vedova Begbick e il tribunale dell’asta dell’elefante. Una struttura semplice si presta a essere molto altro, chiedendo aiuto alla fantasia del pubblico.

I personaggi sono resi con genuinità e naturalezza: la voce, la postura e i gesti sembrano appartenere agli attori stessi che sono stati trasportati in un altro spazio-tempo, ritrovandosi con quei costumi addosso e quelle idee in testa a cui aderiscono con non curanza. Proprio la mancanza di percezione di sé, che è il nervo del testo, diventa anche la tessitura registica e interpretativa. Sembra che per essere tutto possibile basta che un gruppo di persone lo ritenga tale, non che lo sia davvero.

In questo espediente è fondamentale la convinzione del pubblico che viene accolto e provocato con inconsapevolezza. Gli attori fanno spesso il loro ingresso dal fondo rendendo la platea una continuazione del palco e ponendo lo spettatore proprio al centro, non per dire la sua, ma quasi per sentirsi osservato, colto in fragrante nel suo atto voyeuristico. Inoltre è curioso anche come molti monologhi chiave sono pronunciati spalle al pubblico, come per cercare un’intimità tra i personaggi  che stanno prendendo coscienza della loro trasformazione, processo nel quale il pubblico può solo essere testimone ma non parte attiva e partecipante.

Vincitore della rassegna Salviamo i Talenti al Teatro Vittoria, Un uomo è un uomo verrà prodotto da Attori e Tecnici e inserito nella stagione teatrale 2017/2018. Se lo avete perso allora non temete, che molto presto si ripresenterà l’occasione giusta per voi.

RECENSIONE DI FLAMINIO BONI del  4/6/2017

http://www.flaminioboni.it/un-uomo-e-un-uomo-teatro-vittoria-4-giugno-2017/

Il 4 giugno 2017, è andato in scena al Teatro Vittoria, all’interno della rassegna Salviamo I Talenti, lo spettacolo Un uomo è un uomo, di Bertolt Brecht, con la regia di Lorenzo De Liberato e la traduzione di Giulia Veronesi.

Uno spettacolo che colpisce, attira e coinvolge per una serie di soluzioni rappresentative molto interessanti.

Siamo nel 1925. L’esercito inglese arriva a Kilkoa con centomila soldati per marciare verso le frontiere settentrionali per fare guerra contro il Tibet. Quattro commilitoni, durante una serata libera, danno fuoco ad una pagoda per rubare i soldi delle elemosine, lasciando evidenti tracce del proprio passaggio. Uria, Jesse e Polly si vedranno costretti ad abbandonare Jip e far ritorno al treno che li trasporterà al confine. Per evitare di essere fucilati dovranno trovare nell’immediato qualcuno che possa sostituirsi a Jip per l’appello della sera: si imbattono, così, in Galy Gay, un uomo semplice, uno scaricatore di porto, che non sa mai dire di no ad alcuno.

Con l’aiuto della vedova Begbick, che gestisce il vagone-birreria dell’esercito, i tre metteranno in atto un piano grottesco per convincere Galy Gay a sostituirsi a Jip. La situazione, però, si evolverà velocemente e Galy Gay si vedrà coinvolto in un processo di trasformazione totale destinato a farlo diventare un vero soldato per sostituire definitivamente Jip, che, intanto, sembra essersi perso.

A rendere la situazione più complessa e pericolosa si aggiunge il Sergente, detto Il Sanguinario 5, o La Tigre di Kilkoa, feroce militare che ha fiutato l’inganno e tiene sotto controllo i quattro commilitoni.

Un uomo è un uomo è una tra le opere meno conosciute, studiate e rappresentate di Bertolt Brecht; che restituisce un’immagine lucida e cinica dell’imperialismo coloniale e del capitalismo che manipola il proletariato.

Una storia drammatica e comica allo stesso tempo, terribile e pungente sulla capacità di certi individui di trasformare un uomo in un altro uomo.

Galy Gay viene preso, usato, manipolato, smontato nella propria individualità e ricostituito come altro da se stesso, tanto da non essere capace più egli stesso di riconoscersi in quello che era prima.

Mentre viene messo in atto questo processo di metamorfosi profonda, inarrestabile e senza ritorno, anche le persone intorno a lui cambiano, ma, mentre gli altri cambiano con consapevolezza nell’intento di manipolarlo, invece egli muta nome e carattere perché vittima del potere che gli altri esercitano su di lui.

Lo spettacolo restituisce in pieno non solo la storia, sebbene con alcuni (graditi) tagli ed un finale diverso, quanto, soprattutto, i meccanismi psicologici e le dinamiche relazionali tra i personaggi.

Attraverso un processo graduale si passa dalla narrazione e comicità del primo atto, alla più ampia esplicazione e rappresentazione del pensiero brecthiano, attraverso la trasformazione completa di un uomo in un altro uomo e la comicità si fa ironia tagliente e beffarda.

Ciò che il primo atto sottende, richiama e anticipa, nel secondo prende prepotentemente piede in una successione di eventi che distruggono il concetto di individuo, scomponendolo e ricomponendolo a piacimento e al servizio di una ristretta collettività. L’uno cede di fronte al gruppo, l’individuo viene riconosciuto solo in riferimento ad una collettività che gli conferisce senso ed esistenza.

D’altronde “un uomo vale un altro uomo”, “un uomo lo si può rifare a volontà” perché un “uomo è un uomo”.

Il processo di disgregazione dell’individualità e la sua ricostituzione in qualcosa di diverso, manipolato e programmato a piacimento da altri, è rappresentato nello spettacolo in maniera intelligente e acuta, in una narrazione che resta fluida, con una successione di eventi non forzati, ma consequenziali, nonostante  un progressivo approfondimento del carattere psicologico dell’opera e un’atmosfera che diventa sempre più surreale.

I giovani attori in scena sono all’altezza del difficile testo, facendosi allo stesso tempo agenti e strumenti al servizio della storia e del messaggio, merito anche della evidente coesione che caratterizza le dinamiche attoriali e che si riflette nell’interazione dei personaggi.

Bellissima prova personale e collettiva per i tre commilitoni Matteo Cirillo (Uria), Tiziano Caputo (Jesse) e Stefano Patti (Polly), sia a livello interpretativo che espressivo.

Gli fa contrasto Alessandro De Feo, nella doppia veste di Galy Gay e il nuovo Jip, in un processo metamorfico graduale e costante, che forse avrebbe richiesto maggior enfasi nei due antipodi, soprattutto nello smarrimento.

Lorenzo Garufo è il Sanguinario 5, anch’esso un personaggio che muta nel corso degli eventi e che Lorenzo ben riesce a sostenere nel cambiamento.

Arianna Pozzoli è la vedova Begbick, un personaggio centrale per il piano dei tre commilitoni, di cui Arianna fa sentire l’importanza e la presenza con leggerezza e bellezza.

Agnese Fallongo interpreta la moglie di Galy Gay e, nel secondo atto, un soldato.  Di lei ammiro quella sua capacità di contenere il teatro in un gesto o in un’espressione oltre che nella sola verbalità.

Completano il cast Bruno Ricci, nei panni del vero Jip, e Mario Russo, un soldato.

La regia di Lorenzo De Liberato riesce ad alleggerire la rappresentazione a favore del messaggio che, complesso, arriva con immediatezza e lucido cinismo.

La scenografia, nuda ed essenziale, gioca sugli stessi pochissimi elementi utilizzati ogni volta in maniera diversa.

Azzeccata la scelta di utilizzare inserti musicali che, oltre a mutare ritmo allo spettacolo e a mettere in luce alcuni stati d’animo, sono essi stessi narrativi. Già presenti in Brecht, qui, tranne che per due brani, sono stati scritti e composti da Tiziano Caputo a cui va  dato merito.

Un uomo è un uomo è il quarto spettacolo di Brecht che la compagnia mette in scena e con il quale dimostra di aver saputo raccogliere e rappresentare la provocazione intellettuale di Brecht stimolando la riflessione e destando nello spettatore la curiosità di conoscerne e approfondire il pensiero e la poetica.

Lo spettacolo, inoltre, affronta un tema quanto mai ancora attuale: l’annullamento dell’individualità a favore di una massificazione acritica affinché i gruppi di potere possano manipolare gusti e orientamenti degli uomini a proprio favore.

E’ un vero piacere vedere attori, anagraficamente giovani, professionalmente già avanzati, seppur a livelli diversi, affrontare a teatro un testo di tale valore e un autore così complesso come Brecht. Lo trovo un ottimo modo per avvicinare i giovani al teatro e alla conoscenza dei classici.

RECENSIONE DI ANDREA COVA PER SALTINARIA DEL 26/12/2014

http://www.saltinaria.it/recensioni/spettacoli-teatrali/un-uomo-e-un-uomo-compagnia-marabutti-teatro-trastevere-roma-recensione.html

Un episodio ben incastonato in una precisa cornice storica, ma dai connotati purtroppo assolutamente e dolorosamente attuali. A ben guardare talune implacabili logiche sociali e comportamentali non sono strettamente legate a uno specifico contesto temporale o geografico, ma appaiono ben più visceralmente connaturate ai labili equilibri e ai volgari giochi di forza che contraddistinguono le relazioni umane.

Bertolt Brecht e la Compagnia Marabutti riavvolgono i fili della storia sino ai fasti dell'epoca coloniale, durante la quale i conquistatori europei si impadronivano a mani basse dell'intero globo terracqueo depredando risorse e violentando culture senza riguardo alcuno. Nella fattispecie ci troviamo in India, a Kilkoa, e l'esercito inglese è pronto a marciare con circa centomila soldati al di là delle frontiere settentrionali per invadere il Tibet.

Mentre il momento della battaglia si avvicina, quattro commilitoni - Uria (Matteo Cirillo), Jesse (Tiziano Caputo), Polly (Stefano Patti) e Jip (Tommaso Setaro) - si concedono una nottata di bagordi, resa ancor più eccitante dal saccheggiare una sacra pagoda locale per impadronirsi dei soldi delle elemosine; peccato però che Jip durante questo maldestro assalto al tempio resti ferito in modo riconoscibile, il che metterebbe a repentaglio le loro sorti dinanzi all'implacabile severità del generale Fairchild (Lorenzo Garufo). Come porre rimedio all'incresciosa situazione? Semplicemente facendo sparire il compagno-commilitone-amico e rimpiazzandolo con un fantoccio che, indossando un'uniforme e sfoggiando un credibile saluto militare, possa ricordarne le sembianze.

Destino vuole che un semplice pescatore incappi esattamente sul loro cammino: l'impacciato Galy Gay (Alessandro De Feo) si reca al mercato con l'intento di acquistarvi un pesce, promettendo alla devota moglie (Agnese Fois) di fare ritorno entro una manciata di minuti; in realtà non tornerà mai al suo amato rifugio casalingo. Schivate difatti le malie seduttive della conturbante vedova Begbick (Arianna Pozzoli), viene irretito dal mefistofelico trio formato da Uria, Jesse e Polly i quali, facendo leva sull'incapacità del giovane pescatore di opporsi a qualsivoglia richiesta, nel giro di poche ore lo sottoporranno a uno scientifico processo di annichilimento della personalità, svuotamento della memoria e della coscienza, tramutandolo nel perfetto clone di Jerahia Jip di cui necessitavano. Il suo animo indifeso e totalmente malleabile arriverà a rinnegare l'amore della sua donna, la vita passata, le proprie radici, succube delle imposizioni soverchianti su di lui esercitate con astuzia ingannatrice. Un lavaggio del cervello portato avanti attraverso stratagemmi funambolici - esilarante il grottesco episodio della vendita all'asta di un elefante in cui Galy Gay viene suo malgrado coinvolto - che ben simboleggiano le sottili strategie manipolatorie di cui ciascuno di noi diviene quotidianamente vittima: i più forti reagiscono con decisione talvolta divenendo a propria volta persecutori, i più deboli finiscono per soccombere. L'epilogo sarà fortemente sofferto e toccante: in particolare l'incontro con l'originale Jip, che sarà ripudiato e scacciato insensibilmente dai suoi commilitoni ed amici di un tempo, segnerà inequivocabilmente l'abbandono di ogni valore, la tragica sparizione della benchè minima solidarietà umana.

La Compagnia Marabutti sostiene con energia e incisività l'impegnativo testo di Bertolt Brecht, declinandone con intelligenza le molteplici sfumature, dall'ironia caustica all'acuta indagine sociologica, dalla tagliente accusa rivolta alla cinica forza capitalistica e al suo strumentalizzare il proletariato sino allo sprofondare tra le più sordide nefandezze annidate nell'animo umano. La regia di Lorenzo De Liberato conferisce ritmo e dinamismo alla rappresentazione, che diviene ancor più godibile grazie all'alternanza tra segmenti recitati e brani musicali cantati e suonati rigorosamente dal vivo. Minimalista ma assolutamente funzionale la scenografia, per lo più giocata sull'assemblaggio di cassette di legno opportunamente dislocate, a suggerire di volta in volta differenti ambientazioni; accattivante l'espediente di riprodurre le sventagliate di pallottole con palloncini fatti esplodere in fulminea successione dietro le quinte. Ben caratterizzati costumi e trucco, consentono di incasellare le vicende nel loro periodo storico di riferimento e di delineare con precisione i più salienti tratti caratteriali dei personaggi.

Le interpretazioni di tutti i giovanissimi protagonisti, ben calibrate e vigorose, svelano un perfetto connubio di solida preparazione tecnica e galvanizzante passione, presentando la Compagnia Marabutti come una realtà teatrale già matura e con una cifra espressiva personale. In particolare da sottolineare la forza espressiva ed il carisma di Stefano Patti, Matteo Cirillo e Tiziano Caputo nei panni dei tre perfidi istigatori e di Alessandro De Feo in quelli della loro inconsapevole vittima.

Davvero un lavoro interessante, per un testo probabilmente in partenza non di immediata fruibilità, che viene però portato in scena da una compagnia giovane e ricca di entusiasmo in modo moderno e coinvolgente. Cosa chiedere di meglio ad un teatro che, non potendo fare affidamento su laute risorse produttive, sopperisce con creatività, talento ed impegno?

Rassegna Stampa: About Us
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NELLA GIUNGLA DELLE CITTÀ


RECENSIONE DI LETIZIA DABRAMO per RECENSITO del 02/05/2017

https://www.recensito.net/teatro/nella-giungla-delle-citt%C3%A0-di-brecht-i-conflitti-della-modernit%C3%A0-portati-in-scena-al-teatro-sala-uno-teatro-recensione.html

Debutto assoluto per “Nella giungla delle città” (“Im dickicht der staedte”), opera andata in scena fino allo scorso 30 aprile presso il teatro Sala Uno. La compagnia Cavalierimascherati ha riattualizzato un testo giovanile di Brecht, ambientato in una Chicago di inizio Novecento. È qui che si consumano parallelamente i drammi di due uomini, allegoria di un conflittomolto più ampio e urgente: l’opposizione tra ambiente naturale e paesaggio antropico. L’intervento massivo dell’uomo nello scenario naturale di inizio XX secolo, l’industrializzazione forzata e invasiva, il repentino passaggio da una omeostasi quasi idilliaca a uno sbilanciamento nevrotico, che costringe l’uomo a rinegoziare il proprio posto nel mondo, spesso con esiti fallimentari. Le vicende sono quelle legate alla famiglia Garga e in modo particolare al giovane George (interpretato da Marco Usai) il cui incontro con l’imprenditore Shlink (Stefano Flamia) cambierà la vita di entrambi, per arrivare a situazioni surreali che condurranno al finale scambio di ruoli e drammi. Il tema della libertà domina un’opera che sembra basata sul contrasto tra gli scenari urbani claustrofobici e sovraffollati e gli ambienti naturali immensi e difficili da dominare. Il palco inconsueto del teatro Sala Uno, ricavato dalla navata centrale della cripta della Scala Santa, offre spunti e punti di vista interessanti per il dipanarsi della storia, aggiungendo una profondità di campo e la possibilità di mostrare più vicende simultaneamente. In questa versione diretta da Alessandro De Feo particolare rilevanza hanno le musiche, eseguite dal vivo dal maestro Valerio Mele e che spaziano da partiture classiche ai dinamici e ammiccanti ragtime. Fondamentale, inoltre, l’utilizzo di luci che disegnano gli spazi e i tempi quasi come se si trattasse di una tela caravaggesca. La penombra domina in un dramma dell’esistenza in cui meschinità e sofferenza si mescolano e in cui è la stessa figura umana a non riuscire a trovarsi in piena luce o in pieno buio, rigettando una opposizione manichea tra bene e male. In ciascun personaggio convivono contraddizioni: egoismo e generosità sono facce della stessa medaglia, spesso indistinguibili l’una dall’altra, così come un filo rosso sottilissimo separa la contemplazione da una condanna alla solitudine. Dieci attori in scena per restituire lo spettro vastissimo di emozioni umane, dai pensieri più abietti all’amore più puro, attraversando le dinamiche familiari, il disinteresse, la paura, lo scoramento. Tra bische clandestine e bordelli, virtù e vizi, desiderio di cambiamento e immobilismo, sembra quasi che Brecht voglia offrire una lettura di un uomo snaturato, nella sua accezione etimologica: sradicato, rimosso con violenza da ambienti e atteggiamenti che gli erano più consoni. Questo non può che rimanere un dilemma sospeso e irrisolto, un mostro interiore che perseguita e tormenta, una indistinta zona grigia in espansione, che fagocita ciò che trova sul suo cammino. Un conflitto che si traspone, infine, sul piano generazionale e razziale per poi confluire nelle più ampie problematiche che hanno accompagnato il secolo scorso. In questo labirintico impianto narrativo ogni bivio rischia di essere un paradosso e ogni personaggio è un’intricata “foresta di simboli”, per dirla con Baudelaire: un frutto velenoso generato dalla modernità.

RECENSIONE DI PIETRO DATTOLA per SALTINARIA del 30/04/2017

http://www.saltinaria.it/recensioni/spettacoli-teatrali/nella-giungla-delle-citta-teatro-sala-uno-roma-recensione-spettacolo.html

Nella giungla delle città, terzo testo scritto da un Brecht giovanissimo (23 anni), è universalmente noto per le difficoltà che pone nella messa in scena. Pur trattandosi di una storia, infatti, il conflitto non si svolge tanto sul piano fisico, quanto su quello metafisico, e gli espedienti di plot usati dall'autore, lungi dall'essere lineari, si contorcono su se stessi fino a rasentare una famigerata impenetrabilità. Brecht stesso, però, in un testo introduttivo, avvisava il lettore e lo spettatore: "Assistete all'inspiegabile lotta di due uomini e alla rovina di una famiglia, che dalle savane è venuta nella giungla della metropoli. Non tormentatevi il cervello per scoprire i motivi di questa lotta, ma interessatevi alle poste umane in gioco, giudicate imparzialmente lo stile agonistico dei due avversari e concentrate la vostra attenzione sul finale".

Shlink, mercante di legname, individua in Garga, umile dipendente di una biblioteca circolante, un degno avversario per una lotta che intende portare avanti. Lo sfida perciò offrendosi di comprare la sua opinione su un libro, manifestando chiaramente la sua indifferenza tanto per l'opinione quanto per il libro: ciò che gli importa è "comprare" Garga. Come probabilmente si aspettava Shlink, anche a costo di perdere il lavoro e pure quei pochi abiti che ha, Garga (a differenza del suo capo) non si vende: per lui la libertà vale sopra ogni cosa. Dopo qualche tempo Garga torna da Shlink, pronto a rifarsi, ma questi lo sorprende cedendogli la sua azienda e la sua casa, che Garga nel tempo rispettivamente rovinerà e cederà, privando Shlink di qualsiasi possibilità di recupero. Sorprendendo ulteriormente il proprio avversario, Shlink si dichiara a sua completa disposizione e va ad abitare in affitto nella topaia dei genitori di Garga, prendendosene cura al posto del figlio (che sparisce, in preda a tormenti tutti interiori), pagando le spese e anzi acquistando nuovo mobilio. La lotta procede per colpi di scena simili e arriva a coinvolgere anche la fidanzata, la sorella e la famiglia di Garga. Soltanto alla fine, in un dialogo rivelatore tra i due contendenti, si intuisce quale possa essere il motivo di questo scontro. Sin da piccolo Shlink aveva imparato a proprie spese, sulle rive dello Yangtze, cosa significhi il predominio sugli altri e l'insensibilità che esso causa tanto sulla vittima quanto sul carnefice. S'intuisce che la sua vita non è stata altro che una lotta per risalire la catena alimentare. Giunto a quello che poteva considerare un apice, ma giuntoci solo, ha scelto quello che considerava un avversario formidabile in un estremo tentativo di (ri)stabilire un contatto umano. Avendo la pelle inspessita dalle durezze della vita, la lotta rappresenta per lui l'unica via per questo contatto (non a caso rifiuta più volte i genuini sentimenti di Marie, la sorella di Garga), per il quale è disposto a perdere tutto (come di fatto avviene). E tuttavia gli va male, poiché Garga, dopo aver anche lui perso tutto (fidanzata, famiglia, ricchezze), lo abbandona. Lo scontro, anziché giungere a una deflagrazione, si dissipa, irrisolto, nell'aria.

Nel testo è possibile individuare diverse direttrici. Anzitutto, la teoria della lotta e della sopraffazione: le vittime (Shlink, poi Garga) si trasformano inevitabilmente in carnefici. Shlink, che cogliamo alla fine del suo percorso, cerca, sconvolgendo la vita di Garga, di ottenere quel calore (anche se sotto forma d'odio) che da lungo tempo gli mancava; Garga, che cogliamo invece all'inizio della sua parabola, in nome della sua libertà sacrifica qualsiasi cosa (anche la sua stessa libertà, paradossalmente: sconterà tre anni di prigione) e chiunque gli stia intorno e alla fine sceglie di trasferirsi non a Tahiti, che tanto vagheggiava all'inizio, ma a New York, dove troverà pane per i suoi denti di lottatore. Assaggiato il sangue, ne vuole ancora.

Altra direttrice è quella che si rifà al mito del buon selvaggio e della sua corruzione nell'ambiente cittadino, che tutto stritola e corrode e tutto prostituisce. Nello stesso plot c'è un continuo rivolgimento di stati: le aziende passano di mano, i posti di lavoro vengono persi da un momento all'altro, sicurezze non ce ne sono... nulla rimane uguale e non c'è mai soddisfazione per nessuno. La famiglia di Garga, originaria delle praterie, cede alle lusinghe materiali di Shlink, mentre Marie (la sorella del protagonista) se ne innamora senza essere ricambiata. Lo stesso Garga, che appare inizialmente irreprensibile, è in realtà corroso dalla città: non ha mai tempo per la fidanzata, che di fatto perde nella primissima scena, quando si rivela che per questo motivo lei è andata a letto con uno degli scagnozzi di Shlink (il loro successivo matrimonio sarà privo di significato e anche lei verrà abbandonata da Garga). Marie e Jane (la fidanzata, appunto), finiranno per prostituirsi materialmente, pur di sopravvivere, ed unirsi in matrimoni d'interesse. Lungo questo asse si svolge la lotta, maldestra, di Garga per affermare la propria libertà. Oggi diremmo che Garga combatte l'1%, l'establishment. Probabilmente al tempo di Brecht la sua lotta andava intesa più in senso esistenziale, come affermazione della propria incondizionabilità dinanzi alle circostanze esterne.Del resto Brecht non aveva ancora conosciuto le teorie marxiste. A più riprese egli stesso nel testo definisce la lotta tra i due protagonisti "metafisica". E tuttavia qualcosa della lotta di classe, in nuce, c'è: il primo atto di sfida di Shlink nei confronti di Garga è il suo tentativo di comprare la sua opinione; il secondo, trasformarlo in capitalista cedendogli l'azienda. In ogni caso l'intera opera di Brecht è percorsa dal senso della vita come lotta; è come se qui il bersaglio non fosse ancora messo bene a fuoco, come lo stesso autore ammise in seguito. In tale direzione vanno anche i numerosi accenni alla razza e al colore della pelle (si parla di bianchi, neri, gialli).

Come si può forse comprendere, questo marasma - espresso tra l'altro in forma frammentaria (al tempo Brecht collaborava con Karl Valentin) e con battute che trovano ben poco sostegno nella psicologia comunemente intesa, assomigliando più a degli slogan esistenziali - è estremamente difficile da mettere in scena in modo convincente. La sfida è, in partenza, quasi senza speranza. I Cavalierimascherati, guidati da De Feo, ci provano coraggiosamente puntando su alcuni tagli, sull'agilità delle scenografie e di certe soluzioni sceniche brechtiane (che storicamente furono adottate in modo sistematico da Brecht solo successivamente), come a voler realizzare "ante litteram" il famoso effetto di straniamento. Da questo punto di vista, l'intento sembra riuscire solo in parte. Alcune interpretazioni (Garga) sembrano andare in quella direzione, infischiandosene di archi e psicologismi, altre (Marie) sembrano invece andare nella direzione contraria - incertezze alle quali fa però da contraltare la restituzione della sensazione di una Chicago fredda, in cui i rapporti personali contano meno di un cocktail, in cui è facile perdersi per disperazione o perché la vita, con o senza avversari, appare una lotta senza significato.

RECENSIONE DI ANTONELLA CERES per THEPARALLELVISION del 28/04/2017

https://theparallelvision.com/2017/04/28/nella-giungla-delle-citta-e-nascosto-lisolamento-della-moltitudine/

Composta da Bertolt Brecht fra il 1921 ed il 1923, “Nella giungla delle città“ è un’opera teatrale visionaria e drammatica. La Compagnia Cavalierimascherati ne porta in scena, fino al prossimo 30 aprile presso la Sala Uno Teatro di Roma, un adattamento che sfida l’opera stessa e ne mette in evidenza il lato maggiormente provocatorio ed inquietante.

Si possono vendere le opinioni? Toccarle, renderle merce di scambio, negarle oppure assecondarle? Attraverso questo provocatorio dilemma si snoda l’adattamento teatrale di Alessandro De Feo di “Nella giungla delle città – Im dickicht der städte“ di Bertolt Brecht. Nella splendida cornice del Sala Uno Teatro di Roma si consuma il dramma di due anime erranti alla ricerca del predominio sociale che li tiene in realtà prigionieri di loro stessi.

(Foto: © Chiara Anselmi)

L’opera teatrale è particolarmente complessa ed appaiono evidenti gli studi di ricerca e di approfondimento messi in opera dalla Compagnia Cavalierimascherati che, in 100 minuti, sintetizza le linee di una realtà che si percepisce rarefatta e sfuggevole tanto più ci si avvicina alla meta, o finale. I protagonisti sono due, George Garga e Shlink. Il primo ci viene presentato come il semplice commesso di una biblioteca.

Shlink vi entrerà per comprare le opinioni di Garga. Quest’ultimo però non ha la minima intenzione di mettere in vendita le proprie idee e Shlink capisce così che Garga è l’uomo degno di essere sfidato per un duello che non vede in palio premi materiali quanto una riflessione intorno al destino, ai suoi mutamenti ed i suoi fallimenti.

“Non tormentatevi il cervello per scopri­re i motivi di questa lotta, ma interessatevi alle poste umane in gioco, giudicate imparzialmente lo stile a-gonistico dei due avversari e concentrate la vostra attenzione sul finale“. (Bertolt Brecht)

Corollario di questa sfida metafisica sono le vite dei personaggi che condividono la quotidianità dei due protagonisti. Attraverso la definizione delle loro caratteristiche, pregi e difetti annessi, “Nella giungla delle città” offre la possibilità di indagare, senza discostarsi dall’intento originale dell’opera di Brecht, l’amore, i vizi della società contemporanea, i compromessi e i pregiudizi che incatenano l’uomo ai suoi stessi bisogni.

Lo spettacolo merita di essere applaudito perché portare in scena un’opera così complessa è una sfida che non si può ignorare. Gli spettatori sono costretti ad attivare strategie di attenzione impegnative che non devono essere spese per un collegamento rigidamente logico fra un momento e l’altro nella successione della narrazione quanto verso il finale, vero capolavoro antropologico e sociale.

Dal caos nasce il miglioramento? A voi la risposta. Da cercare fino al 30 aprile al Sala Uno Teatro di Roma anche fra le note della musica dal vivo eseguita dal maestro Valerio Mele.

RECENSIONE DI ANTONIO MAZZUCA per GUFETTO.IT del 30/04/2017

http://www.gufetto.press/visualizza_articolo-1382-NELLA_GIUNGLA_DELLE_CITT__Sala_Uno_Teatro-home.htm

La compagnia Cavalierimascherati  continua con successo la rilettura deiclassici brechtiani: dopo l’ “Opera da Tre soldi” e “La vera vita del Cavaliere Mascherato” (che abbiamo visto fra gli spettacoli finalisti del Roma Fringe Festival 2015), ritroviamo i "Cavalieri" romani con il nuovo lavoro NELLA GIUNGLA DELLE CITTÀ (im dickicht der staedte) ispirato alla celebre opera brechtiana, ospitato nell'elegante Sala Uno Teatro.
Spettacolo appassionato, frenetico, sudato e concitato che premia l’azione scenica, piuttosto che assecondare una completa comprensione delle vicende narrate, come lo spirito brechtiano comanda e che ci ha lasciato più di una riflessione in testa.


L’opera fu composta da Brecht nel 1921, fu la prima ambientata in America, nei bassifondi fittizi di una Chicago alveo di una cultura “mista” sempre più marcata, dove i conflitti e le insofferenze serpeggiano fra le classi sociali stesse (una pagina sociale così dannatamente attuale) e la malavita (in questo caso quella cinese) viene posta al centro di una Giungla metropolitana che resta sullo sfondo di una irreale lotta(più metafisica che reale) fra due personaggi antitetici: l’umile libraio Garga, ed il ricco magnate Shlink. Il secondo col pretesto di voler comprare le opinioni del primo, gli regala poi tutti i suoi averi privandosi di tutto e si occupa poi dei suoi genitori sostituendosi a quello, in un crescendo di umiliazioni che non esclude, comunque, una battaglia psicologica aperta su cui si appunta la regia con grande meticolosità, e che viene ben resa dai due attori che si fronteggiano come galli in un’arena, o meglio in una Giungla, quella della vita moderna.

Suggestiva in tal senso e adeguata l'immagine di locandina scelta (vedi a lato) che riproduce il profilo di una città americana e la sua immagine capovolta; e fra esse un uomo su un filo, metafora del funambolismo dell'uomo moderno, in equilibrio (spesso precario) in un mondo che lo chiama a destreggiarsi, purtroppo, con sempre più spregiudicatezza nella società capitalista, qualla Giungla DELLE città (e non solo DI UNA, ma più in generale di ogni città) che tutto divora e tutti chiama ad uno scontro inevitabile fra classi.

Riuscito, se era volontario, l’intento di avvicinare la recitazione dei due protagonisti proprio alle movenze di due animali: un Garga che ci appare e si muove come un leone feroce, che cerca di farsi spazio, che non rinuncia a sbattere e scalciare (quasi un senso di ribellione alla frustrazione di una vita indigente, ma che tale resta anche da ricco, quasi che la frustrazione restasse comunque la stessa, una frustrazione personale,congenita, inesauribile – bravo l’attore a restare sempre in punta di spilli, sempre con lo sguardo alto e fuorioso ) ed uno Shlink dimesso e cauto ma mai del tutto rassicurante, come un serpente, da cui ci si aspetta una reazione, un piano nascosto di nuova sopraffazione che invece, non arriva mai (e se era questo l’intento della regia è ben riuscito).
I versi di animali, riprodotti dalla Compagnia al momento dell’uscita di scena dei personaggi agevola l’avvicinamento dello spettatore alla costruzione metaforica della “Giungla” in cui si svolgono le vicende. Una Giungla condita da vari "animali" che qui sono prostitute, piccoli truffatori e malavitosi cinesi che richiamano quel multiculturalismo, caro a Brecht, che si fonde con l’analisi della lotta di classe in chiave marxista, ed esprime quella volontà descrittiva dei conflitti emergenti fra le classi sociali del primo dopoguerra; scontri che sfociano, senza invettiva, nel paradosso della sottomissione di Shlink a Garga, nel rovesciamento della situazione economica dei due, che lascia però aperto il conflitto morale fra gli stessi.
Un conflitto da cui Garga che aspira alla Libertà ("Voglio la mia Libertà!" afferma), divenuto ricco, esce però sconfitto (e impoverito), mentre Shlink al contrario arricchito dalla capacità di provare emozioni, seppur vittima di un rigurgito di odio nel finale (e bravo l’attore a sottolineare tale guizzo negli occhi, nella postura, nell’atteggiamento eversivo della sua stessa condizione autoimposta di volontario “sottomesso”).

La messa in scena richiama i canoni espressivi di Brecht: suddivisione della vicenda in “capitoli”, proiezioni di filmati con didascalie sulle diverse location, cambiamento a vista della scena, inserzione di motivi musicali fra gli atti.
Rispettare quest’opera è però la missione più difficile e i Cavalieri non sembrano fallire: non c’è stata completa identificazione quanto un giudizio sulla vicenda, e vani sono i tentativi di comprensione di una vicenda (realisticamente resa ma) di per sé metaforica (“Non tormentatevi il cervello per scoprire i motivi di questa lotta..” scrisse del resto lo stesso Brecht),come da dettato di teatro espressionista; ed il giudiziorichiesto nel pubblico sembra essersi smosso soprattutto verso il personaggio di Shlink, la cui claudicanza dell’attore lo umanizza quel tanto da far pendere, almeno da parte di chi vi scrive, il giudizio positivo su di lui.
Comprimari tutti all’altezza, concitati e briosi come già li avevamo trovati ne “La vera vita del Cavaliere Mascherato” ma meno “sciolti” di come ci erano sembrati allora, più concentrati nell’indicare i personaggi che interpretano, senza viverli pienamente. Scherzosi finanche, nella babelica riproduzione di una lingua orientale fittizia.
Piacevoli gli innesti musicali e buona la gestione dello spazio scenico da parte di una regia “più ordinata” di quella vista al Fringe, che plasma e sfrutta i centimetri del palco del bel Sala Uno concentrando più vicende contemporaneamente in diversi angoli, sempre nel tentativo di distogliere l’attenzione dello spettatore da una prospettiva unica di comprensione.

Lo spettacolo sembra dunque riuscire nell’intento di tenere alta l’attenzione e la guardia in vista di un giudizio critico del pubblico non sulla vicenda ma sulla lotta che lega e divide i due personaggi, quasi lo scontro si trasportasse alla platea, mettendo un pugile (l’attore) contro un altro pugile (lo spettatore critico) chiamato qui a vivere lo scontro fra Garga e Shlink come un conflitto di classe e al tempo stesso "umano", ancora attualissimo, una lotta di sopravvivenza in un mondo capitalistico che accentua (ancora oggi, anzi purtroppo come allora) la distanza fra classi sempre più povere e sempre più ricche, in una Giungla cittadina che si conferma tale, neanche troppo incredibilmente a quasi 100 anni di distanza; una Giungla che è oggi più di allora crocevia di popoli e di interessi confliggenti, pronti a divorarsi in una quotidianità disarmante e ripetitiva, annientante, dove la prospettiva di una fuga “Haiti, Haiti” pare irrealistica e dove la lotta per la sopraffazione ed il ribaltamento è sempre dietro l’angolo.

RECENSIONE DI ALESSANDRO ALFIERI per PERSINSALA del 29/04/2017

https://teatro.persinsala.it/nella-giungla-delle-citta-4/37100

Nel 1921 la Germania weimeriana si nutriva di quell’insofferenza e di quell’inquietudine che avrebbero posto le basi della catastrofe europea nel giro di una decina di anni; negli anni fra le due guerre, infatti, gli ambienti delle moderne metropoli assumevano l’aspetto infernale della miseria sociale, luoghi claustrofobici spesso sottratti alla legiferazione civile, dove dominavano le regole ancestrali dell’homo homini lupus e l’avidità e l’ipocrisia si proponevano essere i soli mezzi di sopravvivenza. Nel mondo della modernità industriale, basato all’epoca come non mai sullo sfruttamento del prossimo e sull’asservimento delle classi lavoratrici e subalterne, la filosofia economica di Marx e i principi del comunismo andavano diffondendosi in Europa e proprio negli anni ’20, all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, i partiti socialisti accoglievano la lezione russa per promuovere un’inedita interpretazione delle leggi della produzione e dei rapporti sociali secondo criteri scientifici e teorici solidi ed efficaci. Gli intellettuali più brillanti di quella generazione colsero nella diffusione del marxismo lo strumento privilegiato per comprendere e per promuovere il mutamento del mondo e in Germania tra questi intellettuali spicca il nome di Bertolt Brecht. Sempre nel 1921, Brecht aveva appena 23 anni e aveva avviato la propria carriera di scrittore, ma ancora non era venuto a contatto con la teoria del plusvalore e con gli altri principi della filosofia marxista; d’altro canto, il connubio con Kurt Weill, decisivo per la teorizzazione e l’applicazione della tecnica dello straniamento, sarebbe stato avviato solo qualche anno dopo. Il Brecht giovanile perciò non aveva ancora maturato il suo stile tipico, la sua epica didattica e metatestuale e affrontare un’opera del 1921 come Nella giungla delle cittàrisulta illuminante proprio per mettere in luce il salto qualitativo, estetico e concettuale che il suo teatro avrebbe avuto all’indomani della folgorazione comunista.

Lo spazio affascinante del Teatro Sala Uno sembra quanto mai adeguato a portare in scena il dramma brechtiano; la regia di Alessandro De Feo sfrutta lo spazio e i pochi elementi scenografici rinnovando di volta in volta la scena grazie a pochi e accorti spostamenti; l’accompagnamento della tastiera rende l’ambientazione fumosa della Chicago anni ’20 ancora più tagliente e la dinamicità delle luci contribuisce a scandire gli spazi dello sviluppo narrativo.
La recitazione appare spesso troppo sopra le righe: le urla e le “false” parole in cinese urlate dai protagonisti tentano di proporre al pubblico uno straniamento ante litteram, nel senso che – come detto – nel 1921 Brecht era ben ancorato al realismo di inizio secolo e i tentativi di far sorridere il pubblico attraverso la macchietta della mafia cinese fanno parte dello stesso quid pro quo, oltre a esprimere la fastidiosa pratica diffusa in molti spettacoli di stabilire un rapporto accondiscendente col pubblico (farlo ridere per fargli piacere lo spettacolo).

In fondo e in realtà da ridere c’è ben poco: come diventerà ben più chiaro e potente nell’Opera da tre soldi, Brecht ci mostra l’infamia della vita suburbana della metropoli degli anni ’20, tra sfruttamento e ricatti, povertà e anime perdute. Tuttavia, rispetto alle opere successive, Brecht senza Marx si dimostra ancora impreparato, trascinato da un pensiero confuso, che in questo testo pretende di essere metafisico e che invece resta irrisolto e sospeso. Chiaro è lo schema metafisico della contrapposizione dialettica tra primitivismo della foresta e modernità cittadina, spontaneità delle emozioni e ricerca spasmodica per il guadagno, fino all’ossimoro della coincidenza di giungla e città, come il titolo attesta. I limiti dello spettacolo, però, coincidono con le pecche di un testo fin troppo acerbo, non a caso quasi dimenticato e poco rappresentato. Lodevole la decisione di affrontarlo, contravvenendo al canone brechtiano tradizionale, ma al di là di un buono spettacolo, qualora l’intenzione fosse stata (come sembra) quella di scuotere la coscienza del pubblico, di prendere posizione sulla realtà, di criticare il presente, allora la messa in scena sarebbe dovuta essere in grado di adempiere all’impresa titanica di compensare le mancanze di un testo che da solo (a differenza dei capolavori brechtiani) non riesce a risultare graffiante.

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IL BELLO DEI BAMBINI È CHE UN GIORNO SARANNO ADULTI



IL TRADIMENTO DELL' ETA' ADULTA

RECENSONE DI JOELE SCHIAVONE per BInrome del 21/05/2017

http://binrome.com/featured/il-tradimento-delleta-adulta/

Il bello dei bambini è che un giorno saranno adulti andato in scena al Teatro Studio Uno si rivela essere una doccia fredda amara versataci addosso dalla realtà circostante – qui raccolta, e somministrataci, in cinquanta minuti di tagliente ironia. La profonda visione dell’adattamento di Alessandro De Feo per la regia di Tiziano Caputo conduce lo sguardo dei curiosi nell’intimo educativo ed esistenziale di tre bambini-adulti rappresentati da Matteo Cirillo, Alessandro De Feo e Giordana Morandini.

Un medico alcolizzato, una donna arrivista, un pagliaccio tradito dall’arte si espongono tra gli spazi della propria vita, ad assisterli le pareti di una cucina che farà da confidente allo snodarsi del loro sentiero esistenziale. Nel corso dell’opera lo spettatore entrerà nell’intimità di questi tre anti-eroi, vittime e complici di un sistema che nutre di veleno i bambini – poi adulti – persi nella scelta tra l’essere e il non essere essendo ciò che la società si aspetta da loro.

In questo spettacolo risuona una critica sociale che fa da eco al pensiero di un più lontano Ivan Illich, di quei suoi pensieri scritti, mine vaganti, in cui l’istituzione scolastica scadeva divenendo  l’ agenzia pubblicitaria della società.

Questa doccia fredda dona il gusto dell’aberrazione scolastica, nel suo abuso di potere, e nella sua capacità di annichilire e castrare i bambini, rendendoli privi della genuina creatività, dell’infinita immaginazione, della libera espressione e della gioia di cui ogni fanciullo può essere colmo.

La sovrapposizione di voci, l’alternarsi delle linee dei tre protagonisti, racconta un vissuto più collettivo che individuale,  mostrando allo stesso tempo una ribellione  e una resa completa a ciò di cui si è stati nutriti, ci si chiede allora se il titolo – Il bello dei bambini è che un giorno saranno adulti – sia un detto, dato con umorismo sconfitto e con uno sguardo di resa, o se questo sia un canto come una possibilità di redenzione per i bambini divenuti adulti, ormai padroni della propria esistenza.

RECENSIONE DI ANTONIO MAZZUCA PER GUFETTO.IT del 05/06/2017

http://www.gufetto.press/visualizza_articolo-1441-IL_BELLO_DEI_BAMBINI__CHE_UN_GIORNO_SARANNO_ADULTI_Festival_del_Labirinto_quegli_adulti_con_la_paura_di_veder_crescere-news.htm

Il collettivo, sorto nel 2015 dall’Accademia del Teatro Quirino ha portato in scena un testo liberamente ispirato alle opere del controverso drammaturgo Rodrigo Garcia, riletto in quellaironia clownesca e qui vagamente meno surreale che contraddistingue i Cavalieri già dalle rese brechtiane. In scena il sempre ispirato Alessandro De Feo (che ha curato l’adattamento del testo), un estroso Matteo Cirillo ed una schietta Giordana Morandini. Una messa in scena in forma di studio che mantiene alta l’attenzione su un tema spinoso: quello dell'educazione e della crescita dei figli ricorrendo al riso sulle idee stralunate dei genitori. Un effetto che rischia, a tratti, di tradursi in farsa nella recita, quando invece la drammaturgia appare più seria (e cinica) di quanto sembri e fonte di maggiori spunti interpretativi di quanti ne suggerisca, proprio da parte della generazione che si trova ai bordi della genitorialità. A nostro avviso va dunque affinato qualche passaggio iniziale sgombrandolo dalle facezie più superficiali e puntare a risaltare i significati più difficili delle parole messe in bocca agli interpreti, la cui amarezza merita ancora più attenzione. 

Seppure lo spazio scenico abbia dimensioni ridotte ed il collettivo abbia occupato anche parte della platea avvicinandosi agli spettatori raccolti in circolo intorno a loro, la regia ha saputo sfruttare ogni angolo creando tre microambienti domestici diversi in cui far agire gli attori senza che essi si incrocino drammaturgicamente. Sulla scena i tre interpreti, dapprima bambini e immersi nei giocattoli che ingombrano il pavimento, diventano poi adulti con una lenta vestizione (che segna il passaggio all'età adulta) e una sbrigativa risistemazione dello spazio scenico (il mettere a posto i giocattoli, quasi uno sbarazzarsi della propria infanzia) . I loro figli non compaiono mai, ma vengono richiamati continuamente nei loro pensieri a voce alta, in un susseguirsi di monologhi apparentemente indipendenti, ed eppure legati gli uni agli altri solo dall’ultima parola pronunciata, che segna l’attacco del monologo successivo.
Espediente questo geniale e stuzzicante: tanto più le personalità in scena sono distanti dal punto di vista caratteriale, tanto più la connessione fraseologica dei loro discorsi li unisce in un'unica contestazione dei possibili percorsi di crescita che interessano i propri figli, stretti tra una crescita costretta nei plessi scolastici e tra gli stili di vita del consumismo contemporaneo di cui l'amaro clown da fast food è proprio un tragicomico topico rappresentante.

Una madre ansiosa e piena di aspettative per la figlia e un padre ubriacone e amante della filosofia e delle lettere classiche come strumento educativo primario (se non unico) per il proprio figlio, costituiscono un corollario estremizzato di quegli adulti che temono di veder crescere i propri figli in un mondo di costrizioni e condizionamenti (quando sono proprio loro la principale fonte di condizionamento), posti continuamente sotto il giudizio degli altri. Ne emerge anche una divagazione sull’alimentazione e vengono fissate delle parole su una lavagna in fondo alla scena, quasi si fissassero dei principi da tenere a mente nel percorso ideale di crescita che questi disegnano nella loro mente e che non solo altro che una loro incapacità di crescere e una certa paura di vedere nei figli una speranza di cambiamento (che anelano ma al tempo stesso paventano); al che il titolo diventa quasi umoristico e lascia aperto l’interrogativo: come saranno questi futuri adulti, come cresceranno? Saranno meno spaventati della vita rispetto ai loro genitori?
La risposta la vedremo solo invecchiando, quando quei timori si tramanderanno a quei figli che, divenuti adulti inventeranno altrettante paure per le generazioni che seguiranno senza affidarsi a quell’unica possibilità: lasciar vivere, in qualunque modo vada.

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PETER PAN BEGINS

RECENSIONE DI CHIARA BENCIVENGA PER SALTINARIA del 21/02/2016

http://www.saltinaria.it/recensioni/spettacoli-teatrali/peter-pan-begins-teatro-studio-uno-roma-recensione-spettacolo.html

Personaggi e maschere si alternano e si calpestano con ritmo frenetico sulla scena, in quadri separati che straripano di contenuti, legati da un unico filo conduttore sempre riconoscibile, anche se velato dalla comicità incalzante: la nostalgia di una purezza perduta, per gli anni dell’infanzia, i suoi giochi, i suoi colori, la sua genuinità.

Peter Pan Begins ritrae il disagio generazionale dei trentenni di oggi, in bilico tra un presente “digitale”, fatto di incomunicabilità, apparenza e incertezza, e un passato “analogico”, gli anni della spontaneità, delle fotografie istantanee che sapevano cogliere l’essenza di uno sguardo.

Il trentenne di oggi non riesce a superare questa linea di confine, resta aggrappato a quei ricordi nostalgici perché non sa come affrontare il presente, apatico, incapace di identificare se stesso e i propri desideri. Questi due stadi dell’esistenza si alternano, si confondono tra citazioni letterarie e cinematografiche, in un susseguirsi di scene che pur conservando la loro comicità dirompente e mai banale invitano a profonde riflessioni sulla società odierna.

È esilarante la ridicolizzazione dei media e della loro azione manipolatrice: in un talk show televisivo si decide il futuro di una giovane trentenne, si compone la sua famiglia digitale, mentre due “opinionisti tuttologi” non fanno che urlarsi contro in un battibecco precedentemente studiato a tavolino.

La scenografia semplice, composta da pochi elementi essenziali, dà modo agli attori di immergersi in ruoli diversi, passando da situazioni grottesche ed esasperate a momenti di infantile tenerezza, dove il pubblico viene catapultato in un tempo perduto, sospeso. La frenesia, sempre presente, è qui immersa in un clima rarefatto: i bambini si scambiano le figurine, si chiamano dalle finestre per scendere in strada a giocare.

Il sapore autentico di queste scene coinvolge totalmente lo spettatore, non solo chi ha vissuto l’infanzia e la pre-adolescenza negli anni ’90, ma tutti coloro che hanno superato il critico passaggio all’età adulta: grazie a una regia entusiasta che sa gestire con precisione la molteplicità di elementi che mette in scena, Peter Pan Begins è un caleidoscopio di emozioni, di domande, di riflessioni che evocano nello spettatore l’atmosfera di un passato di cui si ha nostalgia, ma che vale la pena ricordare con un sorriso, senza dimenticare di vivere il presente.

RECENSIONE DI MARTINA CARONNA per NUCLEO ARTZINE del 18/02/2016

http://nucleoartzine.com/alessandro-de-feo-peter-pan-begins/

C’è attesa nell’aria, l’atmosfera è rilassata, la platea bisbiglia parole che ovviamente tutti possono ascoltare essendo estremamente vicini, mentre si aspetta l’inizio. Un anziano comincia il suo racconto proprio come in una favola dei Fratelli Grimm, ma il suo <<C’era una volta>> ci porta negli anni ’90.

Peter Pan begins, in scena dal 18 al 28 febbraio al Teatro Studio Uno di Roma, farà rivivere ai trentenni di adesso ed assaggiare ai più giovani quelli che erano i modi di fare, le abitudini, gli oggetti –analogici, come ci tengono più volte a precisare gli autori – e le situazioni tipiche degli anni ’90.

Il pubblico si ritrova in una sorta di galleria d’arte e, come nella celebre scena di Arancia Meccanica – escludendo la sensazione di inquietudine che ne deriva –, osserva lo scorrere veloce delle immagini proiettate su uno schermo, rapito e incantato.

Si passa da un quadro all’altro con fluidità e senza riprendere fiato, tutto corre, le voci degli attori, il tempo, il dialoghi, le situazioni e le scene che osserviamo. Ci troviamo ad assistere a una sorta di roulette in cui i colori sono sostituiti dai vissuti comuni di quegli anni.

E quindi ci si ritrova catapultati in cliniche psichiatriche che curano una sindrome “analogica” alimentata da ricordi dell’ adolescenza, da un Game Boy, un Walkman e le Bull Boys, ed un caleidoscopico mondo di eventi che si susseguono, come inviti a talk show, colloqui di lavoro, momenti di privata intimità casalinga nei quali il tipico ragazzo degli anni novanta non si trova, perché incapace di comprendere l’era digitale fatta di selfie, tuttologi, stagisti con esperienza, di un’emotività che non si può toccare.

Il lavoro portato in scena dalla compagnia “Cavalieri Mascherati” vuole incentrare l’attenzione sui disagi, i pensieri e le difficoltà che affronta un giovane a cavallo fra due epoche, dagli anni ’90 ai 2000, dall’era “analogica” a quella “digitale”.

Il cambio repentino delle scene e la dinamica in crescendo dell’azione teatrale fanno si che Peter Pan Begins lasci lo spettatore per tutta la durata della performance in attesa che la scena successiva possa dare una risposta ai quesiti che affliggono i protagonisti del racconto – che rispecchiano, per casualità, sentimenti e vissuti passati e presenti della maggior parte del pubblico presente in sala –, e che gli attori riescano in qualche modo a sollevare le sorti di quella che sembra una realtà troppo veloce, troppo audace, per chi ancora ricorda le lire, per chi comprava le penne Replay, per chi era abituato a prendere sugli autobus arancioni.

Per questo tipo di scelta autoriale non si sente la necessità di una drammaturgia teatrale particolare, ma la visualizzazione per blocchi ha reso il tutto comunque scorrevole e collegato nonostante gli “episodi” fossero apparentemente slegati fra loro.

Gli attori, Alessandro De Feo, Marco Foscari, Alessia Iacopetta, Angela Pepi e Gioele Rotini alternano con ironia, spensieratezza e introspezione le usanze di quegli anni in cui si sentivano leoni.

Periodi passati in cui nulla avrebbe interferito l’uscita con gli amici, la “tresca” liceale, i giri in motorino, fino a far pensare che forse è difficile accettare questi trent’anni digitali.

RECENSIONE DI SUSY SUAREZ per GUFETTO.IT del 19/02/2016

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PETER PAN BEGINS in scena dal 18 al 21 febbraio e dal 25 al 28 febbraio al Teatro Studio Uno, è uno spettacolo che toccherà soprattutto l'animo di coloro che trentenni o poco più, hanno vissuto a pieno gli anni ‘90 ed il repentino passaggio dall'analogico al digitale, il quale, inevitabilmente ha lasciato in molti un nostalgico amore per tutto ciò che li ha incarnati, dai programmi tv, alla moda, agli improbabili accessori, i giochi ed i passatempi che ancora poco avevano a che fare con la tecnologia.

Molti rimangono aggrappati alla rupe del passato che non può tornare, al sogno del paradiso perduto di un'adolescenza che sapeva ancora di messaggi scritti a penna su fogli di quaderni e giochi all'aria aperta, proprio come il protagonista di questa pièce, che addirittura finisce con l'impazzire, perso in un delirio in cui rifiuta tutto ciò che gli sta intorno.
Soffre dell'incapacità di riprovare ancora sentimenti forti e totalizzanti come quello del primo grande amore adolescenziale, quello delle attese, degli incontri, delle lettere sul diario. Intorno a lui storie si intrecciano, episodi, immagini del passato si compongono e si ricompongono in una girandola di sketch brillanti e dinamici in cui gli interpreti si trasformano in una serie di esilaranti personaggi.

L'autore immagina un'epoca in cui si è arrivati ad un cinismo così esasperato, da mettere in piedi grotteschi talk show in cui uomini e donne scelgono la propria famiglia digitale in diretta, alla presenza di ormai altrettanto grotteschi opinionisti i quali hanno del tutto smesso di parlare, ma non fanno altro che urlarsi improperi vicendevolmente come ossessi.
La regia adotta soluzioni semplici ma che proiettano con efficacia il pubblico dentro luoghi e situazioni. In scena pochi elementi: una poltrona a rotelle, una seduta ed pezzi di vestiario attaccati tutt'intorno alle pareti con i quali gli interpreti si calano con velocità nei loro diversi personaggi, dimostrando di avere tutti un'ottima versatilità, talento e soprattutto affiatamento.

Questa piccola storia della nostalgia, non può che risultare piacevole nel suo essere briosa e tenera allo stesso tempo, e l'ammonimento finale vale per gli spettatori di tutte le età: restando immobili a contemplare il passato, si diventa vecchi senza nemmeno accorgersene.

Il tema sociale del disagio generazionale dei trentenni è negli ultimi tempi un cult per il linguaggio del web: da You Tube a blog e social network, ovunque si parla di trentenni, individui apparentemente in crisi, in transito dalla giovinezza all’età adulta; ovunque si ironizzano, spesso con sfrontato e impietoso accanimento, tutte le problematiche del caso: la difficile presa di coscienza del cambiamento delle mode, l’incapacità di accettazione di nuovi idoli e di nuove abitudini di vita. Peter Pan Begins, nuovo lavoro della compagnia Cavalieri Mascherati, è il primo episodio del Dittico dell’ incerto, che si focalizza appunto sul processo di crescita del giovane uomo metropolitano a cavallo tra i due millenni.

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